di Giampiero Vargiu

Una delle frasi che sentiamo di più oggi è che “la gente è arrabbiata”. Mi è già capitato di scrivere che la rabbia è un aspetto delle nostre relazioni sociali, che è fine a sé stessa se non trova il modo di diventare energia propositiva e contributo fattivo nella direzione di individuare soluzioni per i problemi sul campo.

Oggi non manca il terreno fertile per il germogliare dei semi della violenza. I concimi sono numerosi e diversi, ciascuno ha come indispensabile componente la rabbia, resa ancor più cocente, acre e violenta dall’esasperazione e dalla frustrazione per la mancanza di valvole di scarico collaudate e a portata di mano. Rabbia, che, soprattutto a seguito delle ultime crisi mondiali e ancor di più a seguito dell’attuale situazione generata dalla pandemia del coronavirus, è aumentata, non è capita ed è manipolata per fini di potere.

Forse, la pandemia causata dal coronavirus ci ha sbattuto in faccia verità che non volevamo vedere e sentire.

Due questioni, in particolare, non riusciamo e/o non vogliamo affrontare: le disuguaglianze e i cambiamenti climatici, con tutte le evidenti conseguenze catastrofiche.

A seguito di questa crisi siamo a un bivio e poiché crisi nel greco classico vuol dire scelta, forse possiamo scegliere un futuro diverso per noi e, in particolare, per le generazioni future. Ho scritto più volte su questi temi e questa volta mi limito a far parlare, di seguito, quanto scritto dal filosofo e accademico italiano Salvatore Veca, sul CORRIERE DELLA SERA di qualche tempo fa, riguardo a Milano, città nella quale viveva, ma quanto scrive può valere in generale e anche per le nostre realtà urbane. Riflessioni utili per un nostro progetto di futuro, con uno sguardo più ottimista, rispetto a quanto può far prefigurare l’attuale situazione.

La lezione di Salvatore Veca per il futuro di Milano: «Da città spezzata a nuovo contratto sociale con la natura»

di Salvatore Veca

L’intervento del filosofo, scomparso il 7 ottobre scorso: «La pandemia è un portale, attraversandolo possiamo reinventare le nostre città e i modi della convivenza urbana». Ambiente e tecnologie i temi dominanti.

È l’ultimo testo scritto di Salvatore Veca, filosofo, docente accademico e protagonista discreto della vita sociale, culturale e editoriale italiana, morto il 7 ottobre scorso a 77 anni. Ospitiamo l’anteprima di un intervento pubblicato dalla rivista «Città» con il titolo «Idee da cambiare». Nel nuovo numero della rivista diretta da Giangiacomo Schiavi — presentazione giovedì 25 novembre alle 18.30 alle Gallerie d’Italia, in piazza della Scala — sono ospitati anche articoli di Gherardo Colombo, Marco Vitale, Arnaldo Pomodoro e tante altre firme del giornalismo ambrosiano.

Nello tsunami di Covid-19 una scrittrice indiana e attivista per i diritti umani e l’ambiente, Arundhati Roy, l’autrice de “Il dio delle piccole cose”, ha scritto: «Storicamente le pandemie hanno forzato gli esseri umani a rompere con il passato e a immaginare un nuovo mondo. Questa volta non è diversa. È un portale, un passaggio da un mondo a uno successivo. Possiamo scegliere di attraversarlo, trascinandoci dietro le carcasse dei nostri pregiudizi e del nostro odio, la nostra avarizia, i nostri dati bancari e gli ideali ormai morti, i fiumi e i cieli inquinati. Oppure possiamo attraversarlo alleggeriti, pronti a immaginare un nuovo mondo. E a combattere per esso». L’esortazione di Arundhati Roy è appassionata ed eloquente. Ci parla della voglia o della necessità di un futuro diverso e migliore, indotta dalla pandemia. Ci induce a un giudizio severo su quella normalità che molti invocano, senza rendersi conto che quella normalità era esito e presupposto, al tempo stesso, di gravi e severi mali sociali. Ci chiede di attraversare il portale e praticare il passaggio da un mondo a uno successivo, liberandoci e alleggerendoci di un gran numero di pregiudizi e del retaggio di un mondo vecchio e ormai degno di biasimo.

Noi oggi possiamo disegnare i tratti distintivi di un futuro più degno di lode. Possiamo reinventare le nostre città e i modi della convivenza urbana. Possiamo specificare i requisiti e le virtù della Milano futura. Ma per esercizi riusciti di immaginazione urbana dobbiamo pensare al passato come a un grande repertorio di possibilità, e mettere a fuoco con altri occhi quell’esito del passato in cui consiste il nostro presente. Questo è l’unico modo per sfuggire alla trappola della dittatura del presente. In gergo filosofico possiamo dire che l’esplorazione del possibile è in ogni caso debitrice nei confronti del mondo attuale. Alternativamente, si fa solo utopia nel senso negativo del termine. È solo l’attrito con il presente e con il vasto repertorio del passato che preserva l’idea positiva dell’utopia come utopia realistica o situata.

Ma, prima di venire ai tratti dell’utopia realistica della Milano futura, sono convinto che sia importante fissare bene un punto che ha carattere prioritario. Si tratta della cruciale questione delle disuguaglianze dai molti volti. Il sociologo svedese Göran Therborn all’inizio del suo The Killing Fields of Inequality asserisce: «La disuguaglianza è una violazione della dignità umana; è la negazione della possibilità che ciascuno possa sviluppare le proprie capacità. Prende molte forme e ha molte conseguenze: morte prematura, salute cattiva, umiliazione, subordinazione, discriminazione, esclusione dalla conoscenza e/o da dove si svolge prevalentemente la vita sociale, povertà, impotenza, mancanza di fiducia in sè stessi e di opportunità e possibilità della vita. Non è quindi solo questione delle dimensioni del proprio portafoglio. È un ordinamento socio-culturale che riduce le capacità, il rispetto e il senso di sé, così come le risorse per partecipare pienamente alla vita sociale». La pandemia, che è il nostro presente, è stata una implacabile rivelatrice dei mali sociali generati dalle crescenti disuguaglianze. E ci ha mostrato della disuguaglianza le dimensioni plurali, i molti volti. Disuguaglianza di reddito, di ricchezza, di reputazione, di capitale sociale, di capacità cognitiva, di competenza epistemica, disuguaglianza generazionale, disuguaglianza fra garantiti e protetti ed esposti al rischio e all’incertezza.

Le disuguaglianze erodono il vincolo sociale, intaccano le ragioni dello stare assieme, generano risentimento e contraggono il capitale comune della mutua fiducia fra persone e gruppi. Così le disuguaglianze recidono il legame sociale delle comunità. Le città sono spezzate e disseminate di muri. Quante città differenti ospita oggi Milano, nella svolta della crisi? Qualsiasi idea abbiamo di Milano futura deve in primo luogo prendere sul serio le cause e gli effetti delle disuguaglianze, mirando alla loro riduzione. Questo è quindi l’impegno prioritario per tutti noi che siamo alla ricerca della Milano possibile nella prospettiva dell’utopia realistica. Il filosofo italo-inglese Luciano Floridi, che insegna all’Università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab, ha dedicato il suo ultimo libro a “Il verde e il blu” e ha chiarito che «il verde e il blu salveranno il mondo […]. Il verde raccoglie non solo l’ambientalismo biologico, ma tutti gli ambienti (urbani, economici, politici). Il blu, invece, raccoglie tutte le tecnologie digitali […]. Tutto il digitale messo a servizio del verde è l’Abc di un progetto umano per il XXI secolo». Ecco i due colori dominanti di cui avvalerci nel disegno della Milano possibile: il verde e il blu. La pandemia, che è il nostro presente, ha messo in luce con violenza la connessione fra la salute e l’ambiente urbano. Più in generale, ha messo in luce gli effetti sulla salute di un ambiente saccheggiato, depredato, offeso e della contraddizione aperta fra natura e cultura. La nuova Milano deve sorgere da un rinnovato contratto sociale con la natura. Il contratto sociale deve definire i principi di giustizia ambientale che, a loro volta, coincidono con i principi di giustizia sociale. Ogni nuovo albero ci dice questo. […].