Scrivo a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione nel vostro sito di un articolo del preside del liceo classico, Pino Tilocca, sulla didattica a distanza, perché a sentire i racconti dei ragazzi non sta andando bene. Non sta andando bene in generale ma ho il sospetto che in Sardegna vada peggio, come accade spesso, e che accada che si stiano delineando anche stavolta confini e consumando discriminazioni, fra centro e periferie, fra città e provincia, e fra aree urbane e zone rurali.

 

 

L'articolo che vi segnalo, comparso sul sito minimaetmoralia.it, pone problemi enormi. Ne sottolineo uno, a proposito del luogo comune abbastanza diffuso secondo il quale ''tutto andrà bene'', e ''ne usciremo tutti migliori'', magari con più pubblico e meno privato, un po' più di socialismo e di condivisione e solidarietà, minori diseguaglianze sociali. Ma Google e Alibaba, e i colossi del web, c'è qualcuno che pensa che verranno ridimensionati, portati dentro a una logica pubblica, a obiettivi di emancipazione collettiva e magari pagando un po' più di tasse? Non succederà, e accadrà il peggio, che ci sembrerà che non se ne possa fare a meno a cominciare dalle questioni di salute – le applicazioni che ci proteggono dai contagiati etc – e ci dice Maurizio Mazzoneschi che finirà che gli stiamo dando tutti gli strumenti e le informazioni perché decidano, anche se non i programmi scolastici, la didattica.

Mi piacerebbe che qualche docente, preside, genitore, studente, qualche sindaco, un consigliere regionale o comunale riflettesse a voce alta su questa tematica, magari raccontando qualche esperienza diretta, cosa succede a Oristano, a Nuoro, nei nostri paesi. Si sentono raccontare cose interessanti alle medie ad Abbasanta e Ghilarza e Sedilo, per esempio, e del tutto opposte, un'oretta di lezione al giorno al massimo nei licei, al centro a Oristano e in periferia a Ghilarza. Sento raccontare che all'Agrario di Nuoro, messi a scegliere su cosa fare dai propri docenti, gli studenti di qualche classe hanno scelto e ottenuto di fare un'ora di lezione a distanza una volta alla settimana, con comodo, di pomeriggio.

Ma ci sono ancora due mesi di scuola, se proprio non si può nemmeno ragionare di prolungare sino a tutto giugno e magari a luglio come propone, inascoltato, il presidente della Fondazione Agnelli. In Danimarca riaprono oggi le scuole, in Germania e in Francia a maggio, in Italia il dibattito è tutto sull'opportunità di aprire o no a settembre. Come se non fosse in gioco almeno quanto si gioca con gli stabilimenti balneari, le fabbriche di mobili e dell'acciaio, per il futuro del Paese e delle nuove generazioni che lo costruiranno. Come se tutto, per quest'anno, fosse ormai perduto. Come se due, tre, quattro mesi non possano essere decisivi nella formazione di un ragazzo e nella crescita di un bambino. So che nelle scuole c'è molto del meglio della società sarda, a Oristano conosco il valore e la sensibilità dei presidi dei due licei, di molti docenti, genitori, moltissimi ragazzi. Aprano un dibattito, o lo rendano pubblico se già è in corso fra loro, gettino in pasto a tutti i problemi che incontrano, le prospettive che si darebbero. Scrivano ai giornali, comunichino, comunità educante vuol dire questo, credo, a maggior ragione nel tempo che stiamo vivendo.

 

Umberto Cocco

giornalista

ex sindaco di Sedilo

 

 

Didattica a distanza: fuori dall'emergenza!

di Maurizio Mazzoneschi

da minimaetmoralia.it del 15 aprile 2020

 

Il lockdown deciso dal governo Italiano e dalla maggior parte dei governi degli Stati a capitalismo avanzato ha determinato un’accelerazione fortissima dell’uso del digitale.

Scuole ed università si vedono costrette ad adottare la didattica a distanza per poter proseguire le lezioni.

Questa situazione di emergenza sta facendo venire al pettine tutti i nodi di decenni di immobilismo e distruzione del poco che era stato costruito.

Innanzi tutto va detto che gli insegnanti, ma anche gli studenti e, ahimè, i genitori, si sono dovuti far carico della distanza, di inventarsi “a distanza”, poiché poco o nulla è stato sperimentato sotto la guida degli organi competenti e quindi nulla è stato messo a sistema. In ordine sparso, scuole e università hanno tentato di fare buon viso a cattivo gioco, a volte facendo finta di nulla: riprodurre la didattica in presenza attraverso le video chat. Poi, pian piano, sono arrivate le assegnazioni dei compiti da fare a casa; chi attraverso le mail, chi attraverso Google Drive, qualcuno attraverso piattaforme come Edmodo, e così via. Nel frattempo il Ministero ha cominciato a dare indicazioni, tramite la sua pagina web (https://www.istruzione.it/coronavirus/didattica-a-distanza.html), sulle piattaforme per la didattica a distanza da adottare: Google Suite, Office 365, Weschool, Amazon, e addirittura Facebook. Il Ministero, non avendo idee, ha scelto di affidarsi ai grandi sia per le garanzie di affidabilità che offrono, sia per l’abitudine che gli utenti (insegnanti e studenti) hanno già nell’uso di una parte degli strumenti messi a disposizione. È il caso di Google e Microsoft Office. E così, anche nel campo della didattica, è continuato lo scivolamento verso le imprese private di una funzione tipica della Cosa Pubblica. Una esternalizzazione in atto da anni anche in altri settori cruciali, come la sanità.

Questo è ciò che sta accadendo.

In questo panorama sono spariti completamente il metodo didattico, la libertà di insegnamento, la questione della privacy e dei dati, il digital divide. Proviamo a farli riemergere.

 

Il metodo didattico

Gli aspetti dei processi educativi che riguardano le relazioni (un professore attento, un’insegnante che ci dice una parola speciale in un momento particolare, un compagno che ci aiuta o ci ostacola, ecc.) che avvengono nell’aula, o nei corridoi, sembra che siano sfrondate, eliminate dalla didattica a distanza, come fossero un surplus. Ciò che conta è il contenuto e la valutazione quantitativa. E quindi si fa la lezione sincrona attraverso la videochat e si assegnano i compiti inviando schede e test da compilare. Così facendo, però, si perde il cuore della crescita. Inoltre si dimentica che il contesto e le relazioni non sono quantificabili.

Per capire quel che sta accadendo bisogna fare un passo indietro. Nella scuola da tempo sta avvenendo un processo di cambiamento della didattica che dà sempre meno importanza alla conoscenza e sempre più alla competenza; in cui l’insegnamento sta lentamente lasciando il passo all’addestramento. Gli studenti sono addestrati all’uso di qualcosa, piuttosto che accompagnati nella relazione a comprendere il funzionamento dei processi (storici, scientifici, etc.). I test INVALSI, validi per l’esame di terza media, ne sono un chiaro segnale.

In questa situazione è evidente che il metodo di insegnamento perde di importanza a favore dei contenuti. E di conseguenza favorisce le piattaforme dei colossi (Google, Amazon, Microsoft, Facebook e così via), cresciute a suon di acquisizione di dati e meta-dati, per poi rivenderli, o per profilare le persone in modo da manipolarne gusti e orientamenti sono adattissime: la riduzione della realtà in numeri è il loro mestiere, in questo caso dell’insegnamento.

Ma perché mai non si potrebbe applicare un metodo collaborativo utilizzando una delle piattaforme indicate dal MIUR? A causa di come sono realizzate le interfacce utente di quelle piattaforme, e delle relazioni che presuppongono: di utenti/consumatori, non di co-costruttori di apprendimenti significativi. Possiamo pensare l’interfaccia come qualcosa che consente a un umano di entrare in contatto con un oggetto o con un altro umano. In questo senso la forchetta può essere considerata come l’interfaccia tra me e gli spaghetti; è l’artefatto che mi consente di prendere degli spaghetti dal piatto e portarli alla bocca.

L’interfaccia delle piattaforme, di tutte le piattaforme, non solo quelle didattiche, condiziona la relazione tra le persone e la macchina e la relazione tra le persone. Se una piattaforma per la didattica a distanza è progettata in modo rigido, non consente di aggiungere contenuti agli studenti, di scrivere in maniera collaborativa (ovvero a più studenti sullo stesso file), non permette la relazione tra gli studenti, è evidente che sarà molto difficile fare didattica in maniera cooperativa. Inoltre, se la relazione pregressa fra insegnante e studente è esclusivamente frontale, improntata a impartire una lezione passibile di valutazione, la didattica a distanza tenderà a esacerbare le carenze della didattica in presenza. In breve: se l’ambiente digitale per l’apprendimento con il passare del tempo non rilascia il controllo agli studenti è una piattaforma che non consente di condividere saperi (http://steve.lynxlab.com/?p=633)).

 

La libertà di insegnamento
sottotitolo: il software deve essere libero

Dunque, se una piattaforma piuttosto che un’altra determina il metodo didattico, ne consegue che se una piattaforma è disegnata per un certo tipo di interazione e relazione tra gli umani invece che per un altro (collaborativa/gerarchica), sarà molto difficile “forzarla” in modo da usarla diversamente da come è stata progettata. Molto banalmente, se non è previsto che sia possibile per gli studenti commentare un contenuto inserito dal docente, quell’attività didattica non si potrà fare. Si dirà: ma è una funzionalità che si può aggiungere. Purtroppo no, perché le piattaforme dei Big Tech non sono piattaforme F/LOSS (Free/Libre Open Source Software). Non è possibile cioè installarle nello spazio di una scuola e modificarne interfaccia e funzionamento.

Per fortuna esistono delle piattaforme didattiche F/LOSS (Moodle, ILIAS, ADA, ecc.), che possono essere installate sui server di scuole ed università, magari in maniera federata; possono essere modificate e migliorate, i miglioramenti possono (anzi devono) essere condivisi e resi disponibili a chiunque trovasse quei miglioramenti utili. Ovviamente tutto ciò necessita di impegno da parte di dirigenti scolastici ed insegnanti. I dirigenti scolastici dovrebbero dirottare verso le piattaforme F/LOSS risorse economiche utilizzate altrimenti per licenze di programmi proprietari (da Office 365, alle piattaforme didattiche proprietarie, che finita l’offerta per la pandemia Covid-19 torneranno probabilmente a pagamento, anche se Google garantisce il contrario. Qui i prezzi dell’offerta BigG: https://gsuite.google.com/pricing.html).

Adottare strumenti Open Source ha anche altre conseguenze positive, tra le quali quella di tenere le risorse economiche necessarie sul territorio. Non è questa la sede per affrontare il discorso, ma su come far ripartire l’economia potrebbe essere un contributo non indifferente: invece di pagare piattaforme proprietarie e inviare denaro fuori dall’Italia e dall’Europa, la didattica finanzierebbe il lavoro locale.

Un’architettura basata su server locali federati, con software Open Source, consentirebbe anche un controllo della tecnologia da parte di chi è vicino agli utilizzatori finali, il che aiuterebbe ad affrontare con le giuste contro-misure le situazioni di emergenza. Per esempio: le scuole sanno perfettamente quanti sono gli iscritti e quindi potrebbe dimensionare in maniera corretta la banda internet necessaria alle video-conferenze per le lezioni a distanza.

Nota: per semplicità in questo articolo ho scritto di Software Libero e Open Source come fossero la stessa cosa. Chi volesse approfondire differenze e similitudini può leggere la “filosofia del software libero” (https://www.gnu.org/philosophy/free-sw.en.html) e Open Source Initiative (https://opensource.org/osd). Aperto non significa libero.

 

Dati e Privacy

L’Europa si è dotata del GDPR (General Data Protection Regulation), un regolamento Europeo diventato operativo anche in Italia a partire dal maggio 2018. Lo scopo del GDPR è quello di rinforzare le regole in materia di protezione dei dati personali dei cittadini dell’Unione Europea. Attenzione però: quasi tutte le piattaforme indicate dal MIUR sono di proprietà di multinazionali statunitensi. È vero che hanno giurato e spergiurato di attenersi al nostro regolamento, alcune hanno firmato accordi di Safe Harbour (porto sicuro, approdo per i dati), ma io non correrei il rischio di aver male interpretato i termini di servizio o di essere soggetto alle oscure trame a cui ci ha abituato Facebook (vedi per esempio il caso Cambridge Analytica).

Ma anche volendo credere alla buona fede e alla capacità effettiva delle Big Teck di tenere separati i dati Europei dagli Americani, c’è un altro tema non meno importante, che riguarda in particolare Google. Come sappiamo la multinazionale californiana ha fatto dei dati (e dei metadati) il proprio core business, investendo molto anche in intelligenza artificiale e machine learning. Si tratta di tre campi di applicazione del digitale (dati, machine learning, Intelligenza Artificiale) strettamente connessi. In questa situazione di emergenza, Google è nella condizione di acquisire una quantità mostruosa di dati dei nostri studenti ed insegnanti e di contenuti prodotti dai docenti, una quantità e qualità inedita nella storia del digitale. Con questi dati e le tecniche di machine learning e IA Google potrà offrire in un futuro molto vicino contenuti didattici prodotti automaticamente che, oltretutto, avranno come caposaldo il metodo dell’addestramento, visto che la piattaforma didattica che propone e attraverso la quale raccoglie i dati è disegnata per questo metodo didattico. E torniamo da capo!

 

Digital divide

Una delle ragioni per cui in Italia non si è sperimentato molto la didattica a distanza è proprio il digital divide. Si articola in due parti: una strutturale e una relativa alle competenze.

Quella strutturale è presto descritta: non tutti hanno un computer disponibile a casa, soprattutto in questi tempi in cui la famiglia è tutta a casa. Fuori dalle mura delle grandi città non c’è una connessione che consenta di poter partecipare alla didattica. Le scuole che dispongono di una banda sufficiente sono intorno al 10% del totale. C’è poi una questione legata al modello di informatica e di rete che si è voluto incentivare: la vera e propria ideologia del mobile first (prima per i dispositivi mobili) ha portato con sé due conseguenze importanti. La prima è che si è privilegiata la connettività mobile (4g, 5g) invece che cablare il territorio nazionale, con il risultato che la connettività è altalenante, poco stabile, in mano alle imprese private e probabilmente nociva per la salute a causa delle fortissime e soprattutto pervasive emissioni elettromagnetiche. La seconda, alimentata anche dalla demagogia dei nativi digitali, è che si è voluto far credere che con uno smartphone o con un tablet fosse possibile fare qualsiasi attività che riguardasse il digitale, mentre in questi giorni viene mostrata in maniera chiara tutta la falsità di tale convinzione: non è possibile fare didattica a distanza in maniera seria con uno smartphone o un tablet. Schermi troppo piccoli, mancanza di tastiera e così via.

L’altro aspetto è quello delle competenze. La nostra classe docente è carente di molte delle competenze necessarie all’uso delle tecnologie per uno scopo didattico, è vero. Nessuno si è mai preoccupato di fare formazione in maniera massiva, e anzi ci hanno fatto credere che si trattasse di un problema generazionale, come se l’attuale classe docente non avesse le carte in regola per fare il passaggio al digitale, quando sappiamo bene che con una formazione adeguata e un impegno dedicato e motivato chi è nato nel secolo scorso può benissimo sviluppare le competenze e le abilità necessarie per lavorare bene sulle piattaforme online. Ci hanno fatto credere che quando gli attuali nativi digitali sarebbero diventati grandi, e quindi insegnanti, non ci sarebbe stata più una carenza di competenze. E invece, anche in questo caso, stiamo scoprendo che non è vero! I nativi digitali sono abili a “maneggiare” gli smartphone, ma non sanno come funziona la rete. Confondono browser con motore di ricerca, ed entrambi per loro coincidono semplicemente con Google. Non conoscono il funzionamento del web e confondono una URL con una stringa di ricerca.

Su questo argomento consiglio la lettura dell’articolo di Mantellini su Internazionale, “Il divario digitale è una zavorra per l’Italia”: https://www.internazionale.it/opinione/massimo-mantellini/2020/03/23/coronavirus-divario-digitale-scuola

C’è da rimboccarsi le maniche, ripensare lo sviluppo della didattica a distanza e più in generale il digitale. Ripensarlo avendo bene in mente le esigenze delle persone, invece che delle grandi aziende private. Questo è solo il primo di una serie di interventi che si seguiranno qui o in altri luoghi virtuali (per il momento).

Buon lavoro!

 

Riferimenti:

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