Da alcuni anni a questa parte il Reddito di cittadinanza è entrato, come un mantra, nell’agenda politica di movimenti e partiti.

Prescindendo dalla difficoltà finanziaria di attuazione ( l’unico caso al mondo, peraltro di modesta rilevanza pro capite è quello dell’Alaska ), vorrei evidenziarne quello che a me sembra l’impianto culturale su cui si fonda ed i rischi sociali correlati.

Muovo la mia analisi partendo dalla considerazione che uno dei risultati più significativi compiuto dalla scienza dell’informazione e dalla teoria della comunicazione, è stato quello di riconoscere la funzione decisiva che ha la “cornice” nella produzione del senso: permettendo di collocare una preposizione all’interno del contesto in cui è prodotta. Conseguentemente e per converso “»una delle tecniche impiegate per impedire che si possa cogliere una correlazione significativa» consiste nel tener fuori [ dalla cornice di riferimento ] uno o più elementi che, se inclusi, potrebbero mutare il senso del discorso” ( R.Kirchmayr da L’Espresso del 30/4/2017 ).

Quello che mi appresto a fare prioritariamente è appunto evitare di applicare al ragionamento tecniche distorsive. Esplicito quindi quali sono i lati della “cornice” in cui svolgerò l’analisi:

Lato 1 – i più giovani non ne hanno forse conoscenza, i più grandi ricordano che nel periodo a forte sindacalizzazione dei lavoratori: cioè il periodo, grosso modo 1975-1985, in cui i leaders sindacali erano Lama (CGIL), Carniti (CISL) e Benvenuto (UIL) un postulato unitario sindacale era la concezione del salario come “variabile indipendente”. Ovviamente i più accorti, anche nelle rappresentanze sindacali, avevano chiara la consapevolezza che il salario non è una variabile indipendente; ma che dietro questo postulato ( da sostenere anche con la lotta ) vi era un principio di politica sindacale teso ad affermare:

a – il mantenimento del valore “reale” del salario, cioè il suo potere d”acquisto ( scala mobile );

b – il diritto dei lavoratori a partecipare alla redistribuzione equilibrata della ricchezza prodotta ( PIL – Prodotto Interno Lordo, cioè il flusso di ricchezza prodotto e calcolato, in genere, annualmente );

Lato 2 – il PIL prodotto viene percepito dal fattore “Lavoro” come salari e dal fattore “Capitale” come profitti e ammortamenti.

In Europa, secondo le analisi più accreditate su fonte Eurostat, negli ultimi venti anni la quota destinata al lavoro è diminuita, a vantaggio del profitto, di oltre 10 punti percentuali.

Siamo cioè di fronte ad un processo di redistribuzione che in Italia ha assunto specificità negative anche più accentuate.

Il reddito delle famiglie dei lavoratori dipendenti ha seguito a malapena l’inflazione media, crescendo tuttavia meno dei prezzi dei beni che in modo più specifico rientrano nel loro paniere dei consumi: siamo cioè di fronte alla tendenza di un generale impoverimento nel mondo del lavoro dipendente.

Le principali e più accreditate spiegazioni collegano il declino della quota salari alla graduale sostituzione del lavoro con capitale, da un lato, e, dall’altro lato, all’abbassamento dei tassi di sindacalizzazione dei lavoratori, passati, nel giro di venti anni, da un’incidenza pari a circa la metà dell’occupazione a poco più di un terzo, indebolendo quindi la forza di tutela esprimibile dal sindacato stesso;

Lato 3 – Costituzione, art. 4: ” La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto»”

Lato 4 – nelle citazioni sul reddito di cittadinanza è sempre assente, perché potrebbe mutarne il senso, la correlazione con la povertà.

Questa è la cornice in cui si muove l’analisi. In questa cornice, la contraddizione del reddito di cittadinanza è quella di una distorsione concettuale in cui è negato ( o messo in ombra ) il nesso con la povertà, lato 4, che è invece questo: al povero, che è tale perché escluso dal mercato del lavoro viene riconosciuto un reddito sussidiato in quanto consapevolmente o meno non si oppone ad una logica economica che ha fatto di lui ciò che è, cioè un povero ( cfr R.Kirchmayr citato ).

Anche a seguito dei mutati equilibri nei rapporti politici e sindacali, gli effetti dell’incertezza e dell’instabilità generati dal sistema economico vengono, infatti, sempre più scaricati:

° dalle imprese sui lavoratori e sui consumatori ( chiusure e licenziamenti spesso dettati più da logiche finanziarie che produttive, precarizzazioni, sottosalari, aumenti ingiustificati dei prezzi );

° dai mercati finanziari sui singoli risparmiatori ( vogliamo ricordare le obbligazioni “argentine” e più di recente le obbligazioni “subordinate”, destinate ad investitori istituzionali e subdolamente scaricate dalle banche – da ultimo banche venete, Banca Etruria e via cantando – ai propri clienti);

° dalle istituzioni sociali agli individui.

Il contesto a me sembra quello neoliberista ( i riferimenti teorici riconducono a Ludwig von Mises e Friedrich Hayek – 1938 ),che si orienta verso una politica economica favorevole ad un mercato privo di regolamentazione ( e di autorità pubblica ), ovvero in balia delle sole forze di mercato e, quindi, dei relativi rapporti di forza che si determinano.

L’organizzazione del lavoro e la contrattazione collettiva da parte dei sindacati sono considerati distorsivi del mercato.

La diseguaglianza è ridefinita come virtuosa: un premio per i migliori ed un generatore di ricchezza che viene redistribuito verso il basso.

In questo quadro il Reddito di cittadinanza – ed è chiaro che non mi riferisco al sistema degli ammortizzatori sociali o agli altri strumenti di inclusione e sostegno sociale su cui ritornerò in prosieguo – si profila come un’esca avvelenata che tenta una mistificata, parziale sostituzione del dettato costituzionale del “»diritto al lavoro”, lato 3, proponendo appunto una linea sostitutiva di galleggiamento ( di sopravvivenza ), utile a fare da sponda ad una logica di mantenimento ed incremento della redistribuzione del PIL a favore del “Profitto” e a svantaggio del “Salario”, cioè del lavoro.

Ci sono vie d’uscita?

Io non ho soluzioni in tasca da proporre. Credo tuttavia che alcune considerazioni, deducibili dalla cornice di contesto in cui ho collocato la preposizione del Reddito di cittadinanza, siano d’aiuto ad indicarci alcune direzioni.

>>> Prima considerazione: credo che la strada principale sia, intanto, il rafforzamento degli strumenti di protezione ed inclusione sociale tra cui il REI, cioè il Reddito di Inclusione che a partire dal 2018 costituirà la misura principale di contrasto alla povertà, destinata a sostituire progressivamente sia il SIA ( Sostegno per l’Inclusione Attiva) sia l’ASDI ( Assegno di Disoccupazione ) e su cui dovranno confluire tutte le risorse che saranno gradualmente recuperate da altri interventi di sostegno.

Sotto questo profilo, appare utile evidenziare che anche la proposta del Movimento 5* (disegno di legge n. 1148 ), ancorché erroneamente promosso come “Reddito di cittadinanza”, non ne ha alcuna caratteristica, ma rientra nella categoria degli RMG (Reddito Minimo di Garanzia ), non diversamente dal succitato REI;

>>> Seconda considerazione: i fatti e i dati ( lato 1 e 2 ) mostrano una correlazione tra tassi di sindacalizzazione e migliore distribuzione del PIL tra “Capitale” e “Lavoro”. Una delle variabili che, quantomeno, hanno facilitato una redistribuzione a discapito del lavoro è stata infatti la progressiva discesa del tasso di sindacalizzazione del mondo del lavoro.

Mi sembra conseguenza logica che i giovani che si affacciano nel mercato del lavoro dipendente e coloro che, giovani o meno, già ci sono, si convincano sull’utilità di sindacalizzarsi, se non lo sono. La ripresa di un alto tasso di sindacalizzazione costituisce un rafforzamento nella tutela del mondo del lavoro, aumentando il potere negoziale del sindacato dei lavoratori verso la controparte imprenditoriale e verso il Governo.

La considerazione, spesso richiamata ( è colpa dei sindacati»), per cui l’azione del sindacato dei lavoratori sarebbe distorsiva del mercato, è strumentale ed in se stessa contraddittoria.

Chiariamo il punto: “Confindustria”, “Confcommercio”, “Confartigianato”, “CNA” tanto per citarne alcune, non sono altro che associazioni sindacali di tutela del mondo imprenditoriale. Qualcuno dovrebbe allora spiegare perché l’azione di tutela dei sindacati dei lavoratori è distorsiva e quella dei sindacati degli imprenditori non lo è, o si fa finta che non lo sia.

Scrive il premio Nobel per l’economia J. Stiglitz “».l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori – risultato sia di sindacati più deboli, che di cambiamento del quadro giuridico che della globalizzazione – hanno portato ad una riduzione del reddito dei lavoratori. Più in generale, le regole del gioco sono state cambiate a vantaggio di quelli più in alto e a svantaggio di quelli più in basso, aumentando le disuguaglianze.”

 

>>>Terza considerazione: che la ricchezza prodotta da una supposta “diseguaglianza virtuosa” finisca poi per redistribuirsi verso il basso appare abbastanza clamorosamente contraddetta dai dati, lato 2, considerando l’intervenuta redistribuzione del PIL a favore del “Capitale” e a scapito del “Lavoro”: i più abbienti lo sono diventati ancora di più e per converso si è ampliata la platea dei meno abbienti e dei poveri.

Voci apicali, ben più autorevoli della mia, C.Lagarde FMI – Fondo Monetario Internazionale e M.Draghi BCE – Banca Centrale Europea, hanno convenuto recentemente che, con il consolidamento in atto della ripresa economica, è necessario affrontare i temi della “diseguaglianza” e dei “salari”.

È pertanto auspicabile che non solo il sindacato, nei limiti in cui lo consente il rapporto di forza – che mi auguro progressivamente in aumento – , può spingere nella contrattazione, ma tutto il corpo elettorale alzi la voce verso la rappresentanza politica perché, rebus sic stantibus, si ponga in essere ogni intervento utile a far si che, a parità di costo del lavoro, possa ampliarsi, attraverso un abbattimento assai più significativo del cuneo fiscale, la quota del salario disponibile.

Sotto altro profilo, venga considerata tra le priorità, non come dichiarazioni di principio, ma nella concreta attività politica e in via continuativa l’attuazione del dettato costituzionale dell’art.4; praticando quindi ogni sforzo atto a rimuovere gli ostacoli che via via si frappongono alla realizzazione del diritto al lavoro.

Gianni Pernarella

Laurea in Giurisprudenza conseguita a Pisa e studi post laurea in Economia. Dipendente del Banco di sardegna dal 1973 al 2003. Dopo esperienza pluriennale di filiale, assume nel 1990 ruoli di responsabilità nella struttura centrale “Organizzazione e Sistemi Informativi” dove, in veste di funzionario capo progetto, ha gestito oltre 10 progetti organizzativi e relativi a sistemi informativi. Collaboratore per oltre 6 anni del SIL – PTO di Oristano; ha scritto quattro libri sulla materia del credito e dell'economia provinciale oristanese relativa all'artigianato.