di Elisa Dettori

Non scrivo nulla di nuovo, se mi esprimo in maniera negativa nei confronti dei tirocini e di tutte quelle alternative poste in campo per dare supporto a giovani e meno giovani nell’inserimento del mondo del lavoro. Alternative che si moltiplicano senza controllo e si trasformano – non sempre ma nella maggior parte dei casi – in vere e proprie occasioni di sfruttamento poco gratificanti, poco istruttive e che garantiscono solo incertezza e instabilità.

Il giornalista Beppe Severgnini ha sintetizzato la questione con una frase esaustiva: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sullo stage”, ormai unica soluzione per chi cerca un impiego, soprattutto in regioni come la nostra.

Parliamo di un fenomeno che coinvolge un esercito di persone da nord a sud ma che, nel meridione, a causa della scarsa possibilità di trovare occupazione, si fa più consistente e angosciante.

Laddove le opportunità lavorative sono davvero esigue e le attività sane e solide sono poche, è inevitabile trovare imprenditori che vedono in certe tipologie contrattuali la possibilità di risparmiare – ottenendo manodopera gratis o a basso costo – e di godere di una maggiore libertà rispetto agli obblighi derivanti dall’assunzione regolare di un dipendente. Di contro, è altresì inevitabile trovare tanti disoccupati e inoccupati – non solo giovani, se pensiamo a formule come quella “over 35”- che sono disposti a tutto pur di garantirsi un’entrata sicura, almeno per qualche mese.

In troppi casi, quello che dovrebbe essere un canale di ingresso nel mondo del lavoro, capace di permettere lo sviluppo di abilità in un determinato profilo professionale, diventa frustrante precariato.

Basta dare uno sguardo alle offerte di tirocinio per rendersi conto del tranello. Ricerca di lavoratori, spesso con precedente esperienza anche biennale, per svolgere compiti generici che, seppur importanti, si basano su delle ripetizioni che non richiedono certo mesi e mesi di pratica. Oppure troviamo l’esatto opposto, quando si cercano soggetti altamente specializzati e qualificati, magari alle prime armi, che vengono messi subito sotto stress in settori di concetto in cui spesso hanno difficoltà a tenere il passo.

Il tirocinio gioca in modo ignobile sulla disperazione di persone già provate dalla vita per l’impossibilità di pagare un affitto, le bollette, costruirsi un futuro. E lo fa grazie alle regioni che sanno come il meccanismo funzioni nella realtà ma non fanno niente per risolvere.

Non fanno niente di fronte a ragazzi e non solo, masticati e sputati via uno dopo l’altro, in un sistema di continuo ricambio del personale, che è controproducente anche per l’azienda che lo pratica. La ricerca, la selezione e la formazione di nuovi dipendenti, rappresentano infatti un costo non da poco.

Ma si sa, soprattutto in Sardegna manca una seria cultura imprenditoriale, quella che ti fa capire, ad esempio, che aiutare un lavoratore a fare propri gli obiettivi e i valori dell’azienda, può trasformarlo in una grande risorsa.

O che ti aiuta a comprendere che creare una squadra capace di lavorare bene in sinergia, nella quale ognuno può definire le proprie competenze migliorando le proprie prestazioni, può rappresentare un’enorme vantaggio per l’impresa.

Sul sito ufficiale della Regione Sardegna leggo:“I Tirocini formativi permettono a disoccupati e inoccupati che hanno assolto l’obbligo scolastico di fare un’esperienza di lavoro e di acquisire o affinare competenze”.

Questi tipi di percorsi dovrebbero insegnare a vivere il mondo del lavoro con responsabilità, non a diventare nuovi schiavi. Dovrebbero aiutare a comprendere quali siano le inclinazioni personali e a supportarle. Dovrebbero fornire quantomeno un bagaglio minimo di esperienza, spendibile anche altrove, perché capace di creare un’identità professionale, con la quale potersi presentare ovunque.

Invece, ciò che per anni è stato un sospetto, oggi più che mai è una certezza: i tirocini, come scrivono e dicono in tanti, sono solo uno sfruttamento legalizzato a vantaggio unico dei datori di lavoro, mentre dall’altra parte c’è chi si barcamena tra miseri rimborsi spese o buoni pasto e spesso non ottiene nessuna concreta formazione.

Non esiste nessun controllo, si richiede la compilazione di ridicoli questionari in itinere e finali, ai quali è possibile rispondere solo con un “sì” o con un “no” e che impediscono qualsiasi forma di comprensione di ciò che accade realmente a chi finisce nelle trame di un sistema imbarazzante.

Il tirocinante non ha nessuna tutela. Se vuole tenere il proprio lavoretto, deve tacere. Laddove un soggetto fragile non può difendersi, sono le istituzioni che devono intervenire. E invece sono complici di un sistema truffaldino.

Un percorso di questo tipo può trasformarsi in un incubo che mina la fiducia in se stessi, l’autostima, finanche la dignità, quando si lavora più ore di un dipendente regolarmente assunto con la medesima mansione, ci si impegna al massimo delle proprie possibilità e ci si ritrova senza un euro in tasca. Quando ci si impegna con tutte le proprie forze per dare il meglio di sé e poi si viene comunque gettati via, per far posto al tirocinante successivo.

Mi chiedo come tutto questo possa servire a combattere la disoccupazione. Drogare il mercato del lavoro, potendo approfittare di folle di disoccupati disposti a lavorare pressoché gratis, è utile alla causa? Come può essere costruttiva una soluzione che si accanisce su disoccupati e inoccupati, già in difficoltà, che lottano ogni giorno alla ricerca di una possibilità? Come può lo svilimento umano essere positivo ed edificante?

I disoccupati che hanno deciso di rimanere e lottare nella propria terra, hanno diritto a pretendere politiche sul lavoro concrete, capaci di fornire soluzioni e ottenere risultati utili nel lungo periodo.

Vogliono assumersi le proprie responsabilità, vogliono agire, imparare, crescere. Vogliono un’opportunità, non l’elemosina.