di Elisa Dettori

Si è da poco conclusa la COP26, La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, tenutasi a Glasgow.

Durante l’iniziativa, la nota attivista Greta Thunberg ha espresso le proprie perplessità sulla reale efficacia di vertici come questo, considerato solo l’ennesimo momento denso di “bla bla bla” e poca concretezza, citando anche il fenomeno del Greenwashing e richiamando l’attenzione su quello che pare sempre di più un ambientalismo ipocrita.

Ma cos’è il Greenwashing? Innanzitutto, come già scritto in un precedente articolo (link di riferimento: https://www.oristanoeoltre.it/fiocco-rosa-solidarieta-o-profitto/), il washing è una particolare  strategia di comunicazione, utilizzata da aziende che ricercano un aumento dei profitti attraverso la strumentalizzazione di temi sociali importanti e di attualità.

Il Greenwashing associa i marchi a tutto ciò che è legato al tema dell’ecologia, per coprire azioni tutt’altro che amiche dell’ambiente e promuovendo un interesse di facciata.

Oggi, un’azienda che vuole mostrarsi ecosostenibile, presenta una confezione di colore verde – che richiama la natura e la salute – o composta da materiali riciclabili. Questo basta per immettere sul mercato un articolo capace di incrementare le vendite, grazie alle sensazioni gradevoli che dona agli acquirenti ma che, in molti casi, nasconde un processo produttivo inquinante.

Un esempio lo troviamo anche nel settore dell’abbigliamento, quando ci viene proposto un capo di cotone, considerato ecologico perché fibra naturale, che però richiede incredibili quantità d’acqua per la coltivazione o l’utilizzo di pesticidi, per massimizzare i raccolti.

La produzione delle materie prime e il confezionamento, avvengono inoltre nei Paesi in via di sviluppo, dove non esistono tutele per i lavoratori che, spesso, sono solo dei bambini.

Acquistare con la convinzione che un marchio lavori in modo sostenibile, quando invece lo fa attraverso lo sfruttamento del capitale umano e naturale, non ci rende consumatori consapevoli ma raggirati. Non possiamo farci condizionare da uno slogan ben confezionato o da un colore sapientemente imposto da tecniche di mercato, per orientare le nostre scelte.

Dobbiamo cambiare le nostre abitudini e creare un’economia circolare, basata sul riutilizzo, sulla riparazione, sul riciclo e non sull’acquisto continuo di prodotti che nemmeno ci servono e che, seppur proposti come “bio”, “green”, “eco-friendly”, non rispettano l’equilibrio ambientale e la nostra salute.