Quando lavoriamo, siamo mossi da ragioni più profonde di quello che pensiamo. A partire dalla felicità

di Vittorio Pelligra_12 luglio 2020

dalla rubrica domenicale MIND THE ECONOMY de Il Sole 24 ORE

In «Memorie da una casa di morti», il diario semi-biografico nel quale Dostoevskij racconta la sua vicenda di recluso in un campo di lavoro in Siberia, tra gli altri temi, viene affrontato quello della natura del lavoro; lavoro durissimo che lui, come migliaia di altri suoi compagni, sono costretti a fare con la forza. Eppure, nonostante la condizione di prigionia e la privazione della libertà, il tormento vero, ci dice Dostoevskij, non sta nella durezza del lavoro, neanche in quello forzato, ma, piuttosto, nella percezione della sua inutilità.

«Una volta mi venne il pensiero che se si volesse schiacciare del tutto un uomo, annientarlo, punirlo con il castigo più terribile (…) basterebbe soltanto conferire al lavoro un carattere di autentica, totale inutilità e assurdità. Se l’attuale lavoro forzato è noioso e privo d’interesse per il forzato, di per sé, però, in quanto lavoro, è assennato: il detenuto fa mattoni, zappa la terra, mette lo stucco, costruisce: in questo lavoro c’è un senso e uno scopo. Il lavoratore forzato a volte persino s’appassiona, vuole farlo con maggiore abilità, efficacia, renderlo migliore.

Ma se, per esempio, lo si costringesse a travasare dell’acqua da una bigoncia all’altra, e da questa riportarla nella prima; a triturare la sabbia; a trascinare un mucchio di terra da un posto all’altro, e viceversa, io credo che il detenuto s’impiccherebbe nel giro di pochi giorni, o commetterebbe un migliaio di delitti per morire piuttosto, ma tirarsi fuori da una simile umiliazione, vergogna e tormento».

Senso e scopo ci fanno appassionare al nostro lavoro

Senso e scopo, ecco cosa rende un lavoro, anche durissimo come quello forzato, tollerabile e perfino “appassionante”, ci dice Dostoevskij. Una situazione simile, per durezza delle condizioni e incongruente atteggiamento di impegno e dedizione, è quella che descrive Primo Levi in una intervista a Philip Roth: «Ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del ‘lavoro ben fatto’ è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale».

In un’altra occasione Levi ebbe a dichiarare: «Al mio mestiere devo la vita» e chissà se intendeva solo perché l’essere stato inserito in un laboratorio lo aveva preservato dalle «selezioni» e dalle condizioni di lavoro più inumane, o forse proprio perché – ricordava: come chimici, eravamo considerati formalmente utili». Queste considerazioni ci pongono davanti ad una questione fondamentale per ogni riflessione sul lavoro, sul suo posto nella vita di ciascuno di noi, sulle sue condizioni e sul suo valore o disvalore profondo: la questione del rapporto complesso tra fatica e sofferenza, da una parte, e significato e finalità, dall’altra.

Il paradosso della fatica

Quello che alcuni hanno iniziato a definire “il paradosso della fatica” (the effort paradox), che viene, allo stesso tempo evitata, se possibile, ma al quale, contemporaneamente, molto spesso attribuiamo un grande valore esistenziale (Inzlicht, M., et al., 2018. “The Effort Paradox: Effort Is Both Costly and Valued”. Trends in Cognitive Sciences 2(4), pp. 337-349). Ogni lavoro dotato di senso si gioca all’interno di questa polarità, tra il peso dell’opera e l’intima soddisfazione che da essa è generata. Una polarità che rischia di non venire compresa appieno fin tanto che non si scioglie, anche nella riflessione sul lavoro, il nodo della differenza tra ricerca di senso e ricerca della felicità; perché è vero che essere felici e vivere una vita densa di significato spesso sono condizioni che presentano spazi ampi di sovrapposizione, ma è altrettanto vero che sussistono, tra le due condizioni, importanti e ineliminabili differenze.

Lo studio delle condizioni e delle determinanti della «felicità» ha visto negli ultimi anni, grazie all’affermarsi della “psicologia positiva” e dell’happiness economics, un fiorire di interesse sia da parte di studiosi che del pubblico più in generale. Per “felicità” generalmente si intende uno stato di benessere soggettivo (subjective well-being) che rappresenta un tono affettivo e positivo dell’esperienza esistenziale. C’è anche una dimensione più valutativa dell’esperienza di vita globalmente intesa; in questo caso si parla più precisamente di soddisfazione nei confronti della propria vita (life satisfaction). Infine, alcuni studiosi pongono l’accento sulla distinzione tra una “vita felice” e una “vita buona”, nel senso aristotelico di «eudaimonia», una vita capace di fare “fiorire” l’individuo nelle sue differenti potenzialità, talenti, espressioni. Questa è forse l’accezione che più avvicina l’idea di felicità a quella della ricerca di senso. Il problema è che, contrariamente a quanto è successo per l’idea di felicità, quella di senso rimane ancora, nell’ambito delle scienze comportamentali, largamente inesplorata.

La base naturale della felicità

Forse una delle ragioni risiede nel fatto che generalmente l’idea di felicità ha, o si pensa possa avere, una base naturale. Nelle sue forme più semplici, infatti, soprattutto quelle di stampo edonico, legate al piacere o all’assenza di dolore, ma anche all’appagamento e alla soddisfazione dei bisogni primari, la felicità si può radicare in uno stato dell’organismo che è fisiologico ancora prima che psicologico. Per questo è più facile e immediato connotare la ricerca della felicità come una fondamentale forza motivazionale. La ricerca del significato e il bisogno di dare un senso alla propria esistenza, al contrario, sembrano processi fortemente caratterizzati da una dimensione più culturale e sociale. Le azioni, le scelte, i contesti, acquistano senso nell’ambito di un processo di costruzione culturale che avviene attraverso la trasmissione di simboli che ci aiutano, generazione dopo generazione, ad attribuire valori, finalità e identità alle esperienze della nostra vita individuale e collettiva.

Qui emerge un primo elemento interessante: il senso che troviamo o che riusciamo ad ascrivere alla nostra esistenza è, in larga parte, una costruzione collettiva, che sfugge, in parte, al nostro controllo individuale. Benché possa apparire strano, questa natura sociale, caratterizza anche certe visioni della felicità; per esempio, la visione tipica degli economisti civili del ‘700 che consideravano la felicità come una faccenda pubblica – l’economia era infatti la scienza della «pubblica felicità». Non si può essere felici da soli, ma ancora di più non si può dar senso alla propria esistenza da soli. Non tanto perché, come capita con la nostra felicità, essa dipende in larga misura dalla qualità delle relazioni che intessiamo con altri e dal riconoscimento che da questi riceviamo – i fellow-feelings e la praise-worthiness su cui si intrattiene a lungo Adam Smith – ma, piuttosto, perché il senso che riusciamo ad attribuire alla nostra esistenza è un mosaico concettuale nel quale milioni di individui hanno posto la loro tesserina, uno sfondo disegnato da storie collettive sul quale osserviamo, in primo piano, noi stessi.

La ricerca di senso va oltre il tempo

In questo modo la ricerca di senso si muove in una dimensione temporale più ampia e sfumata rispetto a quella della felicità. Il presente, il passato e perfino il futuro, nostro, individuale, ma anche sociale e collettivo, contribuiscono alla costruzione di quella narrazione dalla quale ricaviamo il significato di ciò che facciamo. Si capisce, allora, perché, per esempio, il senso di finalità è una delle determinanti fondamentali delle esperienze significative. Perché è la finalità che ci consente di integrare in maniera coerente il nostro passato con ciò che facciamo oggi e ciò che desideriamo per il domani. I ventisette anni di reclusione del perseguitato politico Nelson Mandela, i tredici anni di prigione durissima, di cui nove in totale isolamento, del cardinale Văn Thuán, per esempio, non possono certo definirsi esperienze felici, ma certamente sono state vicende cariche di significato, per come si sono originate e per ciò che hanno generato dopo.

È il senso di finalità che spesso ci aiuta ad integrare elementi temporalmente separati in un quadro organico e nel quale non di rado riusciamo a riconoscere un progetto. Un ulteriore elemento che contribuisce alla costruzione del senso delle nostre vicende è la loro stabilità. Se è vero che, da una parte, le nostre vite sono soggette ad influenze esterne le più disparate, a shock esogeni fuori dal nostro controllo, alla volubilità degli umori e dei comportamenti di coloro con cui abbiamo a che fare ogni giorno, è anche vero, che non di rado tutto ciò avviene all’interno di un quadro di stabilità che ci dice su chi possiamo contare, che cosa, più o meno, possiamo aspettarci dal futuro, quali nessi causali governano le relazioni tra le nostre scelte e le loro conseguenze. Poter godere di un quadro, anche questo socialmente costruito, di relativa stabilità e sicurezza è uno degli elementi che più ci aiuta ad attribuire senso a ciò che la bizzarria della vita spesso ci pone di fronte.

La direzione dei nostri bisogni

Un ulteriore aspetto che in qualche modo differenzia l’aspirazione alla felicità dalla ricerca di senso ha a che fare con la “direzione dei bisogni”. Da un certo punto di vista possiamo sostenere che la felicità derivi dal soddisfacimento delle necessità di natura materiale, immateriale, sociale e spirituale, che il nostro organismo e il nostro io più profondo manifestano. Si tratta di un movimento che va dall’esterno verso l’interno. Al contrario, la costruzione di senso procede molto spesso attraverso un movimento opposto, dall’interno verso l’esterno.

Riusciamo a dare senso a ciò che facciamo quando e se abbiamo la possibilità di esprimere noi stessi, attraverso azioni, scelte, atteggiamenti, che dicono chi siamo, che parlano di noi. In uno studio pubblicato qualche anno fa, lo psicologo dell’Università del Queensland, Roy Baumeister e i suoi collaboratori hanno trovato, su un campione rappresentativo di persone, che non pochi fattori che caratterizzano da una parte la ricerca della felicità e, dall’altra, la costruzione di senso, sono negativamente correlati tra loro.

Se è vero, infatti, che una vita non troppo problematica, per esempio, è fonte di soddisfazione e felicità per molti, è altrettanto vero che dover lottare per la propria esistenza, contribuisce positivamente all’attribuzione di senso alle storie personali di tanti. Essere focalizzati sul presente aiuta a sentirsi felici, ma pensare al passato e alle sue implicazioni sul futuro, invece, aiuta a dare senso a ciò che abbiamo vissuto e stiamo vivendo.

Un terzo aspetto riguarda le relazioni con gli altri. Se in generale coloro che possono godere di relazioni interpersonali soddisfacenti sono contemporaneamente più felici e ricchi di senso, le cose cambiano quando ci si chiede se tali relazioni sono più o meno importanti, per esempio, dei risultati individuali. Coloro che sono disposti a mettere in discussione le relazioni pur di raggiungere dei risultati che si sono prefissi risultano essere più felici, ma solo coloro che non sono disposti, così, a sacrificare gli amici, riescono a dare un senso profondo a ciò che fanno.

Il rapporto tra senso, felicità e lavoro

Un ultimo elemento ci sembra particolarmente rilevante per il tema dal quale siamo partiti e cioè la relazione tra senso, felicità e lavoro. Si tratta del tema del “coinvolgimento”. Farsi coinvolgere dalle cose, farsi trascinare dalla passione, farsi prendere da certi interessi, può non accrescere la nostra felicità, perché magari implica fatica, ci porta via tempo, ci impegna, ma, allo stesso tempo, contribuisce in maniera decisiva alla nostra capacità di attribuire un significato sostanziale a ciò che facciamo, alle nostre giornate.

In conclusione, Baumeister e soci, trovano che la ricerca della soddisfazione dei propri bisogni è, certo, legata alla felicità ma non al significato; che la prima è focalizzata sul presente, mentre il secondo riguarda una prospettiva temporale più ampia; che la felicità è più associata al “prendere”, mentre il senso ci deriva più dal “dare”; che, infine, il significato è plasmato grazie ad un’identità personale ben strutturata, mentre la felicità non ne è, necessariamente, influenzata (Baumeister, R., et al., 2013. “Some key differences between a happy life and a meaningful life”, Journal of Positive Psychology 8(6), pp. 505-516).

Ne emerge un Quadro che ci mostra due finalità, due traiettorie, due idee, quella di felicità e quella di significato che sono certamente legate tra di loro, ma in maniera meno diretta di quanto si possa sospettare: due cugine più che sorelle. Questo è un fatto che può rivestire grande importanza nel mondo del lavoro. Di cosa andiamo alla ricerca nella nostra vita lavorativa? Felicità nel presente o un senso di contribuzione duraturo? Percorsi facili e soddisfacenti o sfide complesse ed impegnative? Credo che il miglioramento delle condizioni dei lavoratori, di tanti lavoratori, in moltissime imprese private così come nelle amministrazioni pubbliche, possa passare non solo dalla creazione di contesti di lavoro più “felicitanti”, ma anche attraverso il ripensamento di condizioni più “significanti”. Sapere che le due cose non sempre vanno di pari passo è un punto di partenza importante per guardare il lavoro e le nostre organizzazioni con occhi nuovi capaci di uno sguardo realmente generativo.