Durante gli ultimi anni è cresciuto un sentimento di profonda ostilità contro una classe politica ritenuta inadeguata, inefficiente. Le critiche più aspre sono rivolte ai politici di lungo corso, che hanno trasformato la propria passione in una vera e propria professione. Considerati oggi parte di un’élite, sono divenuti facili bersagli d’odio.

Quei nomi di candidati che nelle liste elettorali si ripetono da decenni, hanno alimentato il desiderio di cambiamento e la necessità di vedere allontanati, dai luoghi di potere, persone che hanno rivelato incapacità nel governare e vivono una realtà privilegiata, retta dai sacrifici quotidiani dei cittadini che, sempre più spesso, non riescono nemmeno a garantire un pasto alle proprie famiglie.

Difficile non condividere questo diffuso sentire comune. Tutti subiamo i danni di un sistema che funziona in modo anomalo. È palpabile il senso di malessere che cresce tra gli italiani mentre la politica, da tempo immemore, si autoalimenta, vive avulsa dal resto della società che soffre e mostra interesse solo per galoppini e gregari, disposti a cedere il proprio voto, in cambio di un favore.

Il consolidamento di una struttura clientelare – che trova nella politica il proprio principale strumento di connessione – ha privilegiato, nel tempo, alcuni a danno di altri. Prescindendo dal merito e dalle capacità e dando spazio solo a rapporti di parentela e “amicizia”, questo tipo di sistema rappresenta forse la più grave forma di ingiustizia sulla quale si basa la nostra società.

L’acuirsi di una condizione di disagio ha condotto, con ragione, a una pretesa di maggiore giustizia sociale che, ignorata dalla classe dirigente, si è trasformata ben presto in bieca vendetta sociale, dalle imprevedibili conseguenze.

Una situazione di palese corruzione, avvitata su se stessa e ormai incancrenita, ha agevolato l’ascesa di chi ha compreso che l’establishment doveva essere abbattuto, mettendo all’angolo i protagonisti di sempre. Questo ha portato a scegliere rappresentanti tra le persone comuni rivelatesi però, in molti casi, del tutto prive di competenze ed esperienza.

Attraverso la degenerazione di tale meccanismo di selezione della nuova classe dirigente, si è arrivati a considerare puri gli inetti che, grazie alla propria semplicità e ingenuità diventano, agli occhi dei più, indiscutibilmente onesti. È stato avviato un processo illogico e perverso per il quale chi studia, si prepara, padroneggia una materia e utilizza un linguaggio appropriato, viene considerato radical-chic, arrogante e poco affidabile. Di contro invece, chi meno conosce, chi più grammatica e ortografia ignora e meno buone maniere rispetta, è ritenuto vero, rassicurante, simile al popolo al quale appartiene e suo degno portavoce. Come se il popolo fosse solo questo: un insieme indistinto di individui rozzi e incolti, incapaci di migliorarsi sul piano del sapere e volenterosi di affermarsi solo con la prepotenza. Immagine davvero poco edificante.

L’incapacità è diventata un valore aggiunto. Gli sforzi delle generazioni precedenti, volti a investire in studio e cultura per garantire un futuro migliore ai propri figli e aiutarli ad acquisire maggiore consapevolezza del mondo che li circonda, sono stati vanificati, in poche mosse, da chi ha compreso che scaltrezza e arrivismo possono ricompensare più della preparazione.

Quella del politico non può essere una professione, sostengono gli pseudo-rivoluzionari di oggi. Chi ha governato fino ad ora, seppur preparato, si è mostrato inadeguato nell’affrontare le sfide imposte dai tempi che viviamo e, cosa ancor più grave, è complice di un impoverimento generale della Nazione. Ed è proprio al deterioramento delle condizioni economiche che sono seguite delle inevitabili trasformazioni sociali, con ripercussioni anche sulle Istituzioni.

Oggi, il politico si riappropria della sua identità: tiene l’orecchio a terra, ascolta i cittadini e li rassicura. Chi l’ha preceduto ha fallito e, cosa ancor più grave, ha dimostrato di non riuscire a tutelare le parti sociali più deboli.

Tuttavia, il ricambio generazionale non è sempre positivo, soprattutto in presenza di impreparazione culturale e politica. I cittadini vogliono sentirsi inclusi, vogliono essere compresi ma questo non basta se, l’abilità nel farlo, non è supportata da individui che possiedono gli strumenti per portarne avanti le istanze. Governare implica un’assunzione di responsabilità. Richiede l’avere una visione chiara di ciò che si desidera attuare e del percorso da seguire per farlo. La politica deve essere ragionata, non può essere figlia del solo istinto.

Fare politica è una professione che deve essere esercitata in tempi contenuti, certo, ma con una passione e una dedizione che assicurino la qualità dell’operato, al pari delle altre. Oggi si richiedono professionalità ed esperienza anche per gli impieghi più generici. Perché, a chi gestisce la cosa pubblica, dovrebbero mancare entrambe?

Un tempo la candidatura era un punto di arrivo, oggi segna l’inizio di una nuova carriera, l’acquisizione di un nuovo lavoro. Per molti, il primo lavoro.

Siamo sicuri che questa sia la strada giusta da percorrere, per essere degnamente rappresentati?

Elisa Dettori